La Corte d’Appello di Ancona con la sentenza n. 208/2022 accoglie la domanda di nullità dei contratti di investimento formulata da oltre 60 risparmiatori, tutti patrocinati da FrameLex, disponendo la restituzione di un capitale pari a complessivi euro 1.450.000,00= oltre interessi legali.
La questione riguardava l’omessa indicazione della facoltà di recesso prevista dall’articolo 30 T.U.F. sulle schede di prenotazione dei certificati che erano stati collocati da un noto Istituto di Credito per il tramite della propria rete di consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede.
Fra i vari principi ribaditi dalla Corte anconetana ritroviamo quello, molto interessante, per il quale l’avvertenza sulla facoltà di recesso deve essere contenuta nella disposizione con cui il risparmiatore direttamente dispone dei propri capitali a prescindere dalla presenza nel “contratto quadro” della clausola sullo “jus poenitendi”, così si legge in motivazione: “Quindi la clausola di previsione della facoltà di recesso contenuta nel contratto quadro, ma non nel “modulo o formulario” e cioè nel documento che esprime ex art. 1321 c.c. l’accordo sull’operazione di investimento concretamente effettuata, non è idonea a soddisfare l’onere posto a carico dell’intermediario ai sensi dell’art. 30 comma 6 d.lgs 58/98 (tal senso vedi anche Cass. sent. n. 7776 del 3/4/2014), con conseguente nullità dei contratti dedotti in giudizio in applicazione del settimo comma della citata disposizione”.
Interessante anche il fatto che la condanna sia stata pronunciata nei riguardi del solo intermediario collocatore e non anche nei riguardi della società emittente gli strumenti finanziari: “Partendo dalla ricordata distinzione e netta separazione tra il contratto concluso tra l’emittente e il soggetto collocatore e quello tra quest’ultimo e gli investitori finali, accolta dalla giurisprudenza nomofilattica, occorre rilevare che il contratto concluso tra l’intermediario e gli investitori è riconducibile alla fattispecie disciplinata dall’art. 1731 c.c., e cioè ad un contratto di commissione al quale risultano applicabili le norme in materia di mandato e in particolare l’art. 1706 c.c.. Ora, sia che si aderisca alla tesi per cui il negozio gestorio, avente ad oggetto cose mobili, produca immediatamente l’acquisto del diritto in capo al mandante, sia che si aderisca alla tesi per cui vi sarebbe un doppio trasferimento (dal terzo al mandatario e da quest’ultimo al mandante), di cui il secondo automatico ex lege, eventualmente previa individuazione ex art. 1378 c.c. (cfr. Cass. sent. n. 9166 del 24/6/2002), in ogni caso il terzo venditore rimane del tutto estraneo al negozio concluso tra mandante e mandatario. Alla medesima fattispecie astratta del contratto di commissione è altresì riconducibile anche l’ipotesi di collocamento di prodotti finanziari previamente acquistati dall’intermediario. In tale ipotesi infatti viene in rilievo la previsione di cui all’art. 1735 c.c., la quale prevede che quando il contratto di commissione ha per oggetto beni aventi un prezzo di listino (ed è escluso pertanto un conflitto di interessi con il committente) il commissionario può farsi “contraente in proprio” cumulando in sé le due qualità di venditore (o acquirente) in proprio e di commissionario. Le considerazioni svolte portano quindi ad escludere che nella specie i contratti di investimento dedotti in giudizio siano stati stipulati direttamente tra l’emittente (o offerente) i titoli e gli investitori finali”.
Questa sentenza si aggiunge alle altre già ottenute in precedenza da FrameLex su questo argomento e contribuisce ad irrobustire un indirizzo giurisprudenziale che sta correttamente interpretando ed applicando l’articolo 30 del T.U.F. secondo la sua vera “ratio legis”: allargare il più possibile il perimetro dell’offerta fuori sede e non restringerlo al fine di escludere l’applicazione della sanzione di nullità di cui al comma 7 dell’articolo 30 T.U.F..
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