Obbligazioni Banca MPS il Tribunale Di Venezia condanna la Banca a risarcire il risparmiatore

Obbligazioni Banca MPS il Tribunale Di Venezia condanna la Banca a risarcire il risparmiatore

FrameLex con l’Avvocato Marco Da Villa, ottengono dal Tribunale di Venezia una pronuncia favorevole al loro cliente in materia di obbligazioni subordinate di Banca Monte dei Paschi di Siena (nel dettaglio, si trattava delle obbligazioni subordinate Lower Tier II).

La sentenza n. 1585 del 20 settembre 2023 spazza via la perentoria affermazione rilasciata dalla Banca convenuta nei propri atti di causa: “L’iniziativa avversaria rappresenta l’ennesimo tentativo di traslare su una banca, nel caso di specie BMPS, le perdite di un investimento divenuto meno remunerativo rispetto alle attese, cavalcando in modo opportunistico le vicende che hanno caratterizzato la ricapitalizzazione della Banca tramite l’intervento dello Stato (su cui v. infra), e il clamore mediatico negativo che ha accompagnato l’istituto senese nel recente passato”. In realtà, nel caso di specie, il risparmiatore ha semplicemente contestato di non aver ricevuto idonea informativa e ciò in violazione dell’articolo 21 del Testo Unico della Finanza e degli articoli 27 e 31 del Regolamento 16190/2007; nel promuovere il contenzioso ha esercitato una sua legittima facoltà, senza incorrere in alcun abuso di diritto e senza voler addossare alla Banca gli esiti di una operazione che, peraltro, se, in origine, gli fosse stata correttamente spiegata non avrebbe di certo concluso.

Non a caso il Tribunale di Venezia osserva che “nella fattispecie oggetto del presente giudizio, dall’esame degli ordini di acquisto e delle comunicazioni di avvenuta esecuzione degli ordini inviato dalla Banca la natura subordinata dei titoli acquistati dal sig. ***** non emerge in alcun modo. Anzi, negli ordini di acquisto sottoscritti dall’attore, i titoli in questione sono espressamente qualificati come “ordinari”, senza alcuna menzione della loro natura subordinata o comunque del fatto che il loro rimborso sarebbe stato postergato rispetto agli altri creditori titolati”.

Il Giudice ha colto perfettamente la tesi sostenuta dal risparmiatore, condividendo che “ciò che rileva non è tanto l’indicazione nominale del tipo di obbligazione che, in assenza di definizione normativa, può essere suscettibile di diversi tipi di categorizzazione, quanto l’informazione al cliente della sostanziale natura subordinata della stessa rispetto alle altre. In altri termini, ai fini della valutazione della completezza dell’informazione reso al cliente dalla banca, non rileva che le obbligazioni subordinate rientrino effettivamente tra quelle “ordinarie”, ma che nessuna indicazione sia stata data sul fatto che, in caso di particolari difficoltà finanziarie dell’emittente, il rimborso sarebbe stato subordinato dalla soddisfazione degli altri creditori non subordinati o subordinati di grado inferiore”.

La carenza informativa lamentata dall’investitore integra, secondo il Giudice di Venezia, un’ipotesi di inadempimento contrattuale idoneo a costituire titolo fondante il diritto al risarcimento del danno ex art. 1218 codice civile sulla responsabilità del debitore.

Altrettanto importante è il fatto che il Tribunale, nell’analizzare la tesi difensiva della Banca, sia arrivato a riconoscere come sia “irrilevante che, al momento della sottoscrizione, non fosse preventivabile alcun pericolo di solvibilità in capo all’istituto di credito”.

Ecco, quindi, l’accoglimento della domanda risarcitoria formulata dall’investitore per violazione delle norme comportamentali suddette (art. 21 TUF e articoli 27 e 31 del Regolamento Intermediari 116190).

Ed ancora, un breve cenno ad un altro principio ribadito dal giudice veneziano e che rileva perché utile a smontare una classica tesi difensiva delle Banche: “… sotto tale profilo, non rilevano le deduzioni dell’istituto di credito in ordine al fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dal sig. ***** in atto di citazione, questi, in realtà, aveva già precedentemente posto in essere ulteriori operazioni di investimento, con conseguente correttezza dei dati inseriti nell’intervista Mifid, posto che l’intermediario non è esonerato, anche in presenza di un investitore pur aduso ad operazioni finanziarie a rischio elevato che risultino dalla sua condotta pregressa, dall’assolvimento degli obblighi informativi, prescritti in generale e senza eccezioni” dall’art. 21 del TUF come poi puntualizzati dal Regolamento Intermediari.

Concludendo, la sentenza del Tribunale di Venezia segna un ulteriore punto per tutti i risparmiatori che, consapevolmente o meno, si sono ritrovati titolari di obbligazioni subordinate MPS che poi, a seguito alla ristrutturazione dovuta alla notoria crisi dell’istituto senese, sono state convertite in azioni con il cosiddetto “Burden Sharing”.

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Fondi H2O intanto interrompere la prescrizione

Fondi H2O intanto interrompere la prescrizione

La vicenda dei fondi d’investimento H2O presenta tutte le caratteristiche per diventare una nuova disfatta generalizzata per i risparmiatori italiani.

Non faccio previsioni in merito alla possibilità che i fondi in futuro vengano rimborsati o che possano tornare ad avere una quotazione soddisfacente, mi limito a brevi considerazioni ove la situazione dovesse rimanere quella attuale.

La domanda che i risparmiatori, almeno quelli che hanno già contezza della situazione (molti a mio dire nulla ancora hanno saputo semplicemente perché non li è stato detto), si pongono è: come faccio a recuperare la perdita?

Le azioni possibili in astratto sono molteplici: a) agire direttamente in danno di H2O Asset Management, b) agire nei confronti dell’intermediario collocatore, c) agire contro la compagnia di assicurazione se i fondi figurano come sottostante di una polizza di tipo unit o multiramo, d) agire contro il revisore dei conti di H2O AM cioè la società KPMG.

Ogni azione presenta le proprie peculiarità con i propri rischi e vantaggi, certamente una delle differenze principali tra di esse riguarda la nazionalità della controparte, poiché è molto più vantaggioso ed agevole avere un contraddittore italiano o che almeno abbia una sede legale secondaria e/o rappresentanza in Italia, piuttosto che una controparte estera.
Nel nostro mercato nazionale le banche e le reti di distribuzione (sono stati fatti i nomi di Azimut, Banca Generali, Bper, Bnl-Bnp Paribas, Fineco, IWBank, Banca Mediolanum e Banca Widiba) hanno venduto i fondi di H2O in grandi quantità ed è, allora, intuitivo che cercare di recuperare le perdite subite chiedendo il risarcimento all’intermediario con il quale si è interagito, nella maggioranza dei casi, consentirebbe di avere una controparte di diritto italiano.

Peraltro, nella mia esperienza professionale, ho potuto verificare con riguardo ai precedenti “scandali” finanziari di massa (Argentina, Parmalat, Obbligazioni subordinate MPS, Banche Popolari Venete, ecc.) che spesso proprio a carico degli intermediari collocatori sono state accertate plurime violazioni per il mancato rispetto degli obblighi informativi, per l’erronea valutazione di adeguatezza ed appropriatezza delle operazioni, per l’erronea o omessa prestazione del servizio di consulenza, per la violazione del dovere di tutela dell’interesse del cliente e di gestione dei conflitti di interesse, nonché per il mancato rispetto dei generali principi di buona fede e correttezza. Tutte violazioni che hanno consentito di promuovere idonea azione legale.

Le verifiche di base da effettuare in via preliminare e che tutti possono compiere sono queste:

1) Controllare se si è in possesso di tutta la documentazione contrattuale e se del caso chiederne copia;
2) Controllare in quale casistica rientri il proprio caso, ad esempio se:

a. I fondi sono stati acquistati direttamente su indicazione di terzi o per scelta ed iniziativa personale;
b. I fondi sono stati acquistati a seguito di una raccomandazione personalizzata (servizio di consulenza);
c. I fondi sono stati acquistati nell’ambito di un rapporto di gestione di portafogli di investimento;
d. I fondi erano inseriti come sottostante di una polizza di tipo unit linked o multiramo.

3) Individuare l’ammontare della perdita.

Nel frattempo, anche per capire quali saranno le future evoluzioni della vicenda, non è assolutamente sbagliato, anzi è consigliato, iniziare con lo spedire una semplice lettera di interruzione dei termini di prescrizione (10 anni dal compimento dell’operazione per la responsabilità contrattuale, 5 anni per la responsabilità da fatto illecito) in modo da scongiurare il rischio che, quando sarà stato deciso di agire in giudizio, non si scopra che oramai non è più possibile farlo a causa di intervenuta prescrizione.

Vale la pena duplicare la lettera di interruzione della prescrizione mandandola non solo alla società con la quale si è intrattenuto concretamente il rapporto ma anche alla medesima H2O Asset Management se non addirittura pure alla società di revisione.

Molte volte, infatti, alcune azioni, come la costituzione di parte civile, diventano tecnicamente possibili solamente a distanza di anni dal fatto (vedasi il processo penale oggi pendente a Roma contro la società di revisione di Veneto Banca, partito nel 2021 a distanza di anni dal crack della banca) e magari quando, in quel momento, il diritto al risarcimento è insanabilmente prescritto.

In allegato un facsimile, da integrare e personalizzare a seconda del proprio caso specifico, predisposto per la sola ipotesi di invio all’intermediario collocatore. La struttura di base, con le ovvie modifiche, rimane comunque la stessa anche per gli altri interlocutori ai quali inviare la lettera interruttiva.

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La presunzione di (non) colpevolezza del CF

La presunzione di (non) colpevolezza del CF

Procedimento sanzionatorio OCF, la presunzione di (non) colpevolezza del CF; perché è importante la prima risposta data all’audit interno della preponente. Bisogna giocare d’anticipo, preparando il campo per primi.

La presunzione di non colpevolezza costituisce un fondamentale principio in materia penale e accolto nella nostra Costituzione; detto principio trova, però, applicazione anche nell’ambito degli illeciti amministrativi: in pratica deve essere accolta l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente. Il che equivale quindi a dire che dev’essere l’autorità amministrativa (OCF) che procede a comminare la sanzione a svolgere un ruolo analogo a quello dell’accusa in un processo penale e a dover fornire sufficienti elementi di prova per una condanna.

Pertanto, l’opponente (il CF) non dovrebbe provare la propria mancata responsabilità in materia amministrativa, perché sarà sufficiente che l’autorità sanzionatrice non riesca a provarla.

Tutto molto bello ed interessante peccato che non funzioni proprio così. Con l’invio della lettera di contestazioni degli addebiti OCF ha già stabilito che il consulente ha commesso la violazione e lo ha stabilito sulla scorta del materiale raccolto a seguito della segnalazione ricevuta o dall’intermediario preponente o dal cliente reclamante, quindi, fatto importante, in base a documenti trasmessi da chi sta accusando il consulente con lo scopo di “farlo fuori” o di legittimare la sua già avvenuta terminazione o, soprattutto nel caso dell’investitore, con la finalità di ottenere il risarcimento delle perdite subite dagli investimenti.

Il Consulente entra, quindi, in gioco in un campo (minato) già definito e preparato dagli avversari, spetterà a lui dimostrare di non aver commesso il fatto e questo peso di convincere OCF di essere esente da responsabilità gli rimarrà sulle spalle per tutta la partita. Infatti, alle prime difese il Consulente si vedrà ribattere che le stesse non sono sufficienti a superare l’originaria presunzione di colpevolezza e ciò nonostante OCF non abbia aggiunto nessuna altro atto o indagine agli accertamenti iniziali.

E se poi, in zona Cesarini, il consulente dovesse azzeccare il goal partita fornendo validi elementi a discolpa, il tutto sarà reso vano dal principio di discrezionalità di cui all’articolo 180, comma 4, del Regolamento Intermediari per il quale OCF può disporre, in luogo della sanzione prevista, la tipologia di sanzione immediatamente inferiore o superiore.

Perlomeno in alcuni dei casi che ho seguito questa discrezionalità ha comportato che, pur avendo dato prova della non colpevolezza, il Consulente sia stato sospeso 30 giorni e non 4 mesi o che gli sia stata comminata la sanzione pecuniaria invece della sospensione; emblematico, poi, il caso di quando viene disposto il richiamo scritto ai sensi dell’articolo 196 del Testo Unico: la sensazione è, allora, che, avviato il procedimento, una sanzione debba essere data per forza, con buona pace della presunzione di non colpevolezza.

Dunque, come fare? Agire d’astuzia sin dall’inizio non sottovalutando assolutamente le risposte che si forniscono all’audit della società o al proprio cliente; esse, rappresenteranno la pietra d’angolo del costrutto accusatorio che verrà formato, magari anche a distanza di tempo, contro il Consulente e sarà difficilissimo vincere e/o superare queste iniziali dichiarazioni; ne consegue che la difesa deve iniziare ancora prima che venga dato avvio al procedimento di vigilanza.

Bisogna giocare d’anticipo, preparando il campo per primi. Va poi sempre tenuto a mente che non esiste nel procedimento sanzionatorio il concetto di avere agito in buona fede per facilitare il cliente: a poco importa se il comportamento contestato ha portato ad una plusvalenza o ha evitato/ridotto una perdita, a rilevare è sempre e soltanto la condotta oggettiva del Consulente indipendentemente dagli effetti provocati; la condotta verrà sempre valutata in modo assolutamente impersonale.

Piccole omissioni, sbavature che per quanto minimali si pongono in contrasto con le regole di comportamento, anche in assenza di conseguenze negative per la clientela, saranno ugualmente sanzionate.

Quello che nella mente del Consulente altro non è se non una cosa di poco conto, un’inezia, un nonnulla integrerà lo stesso nel procedimento sanzionatorio una fattispecie rilevante da punire alla stregua dei cosiddetti reati bagatellari.

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Corte d’Appello di Ancona nullità ex articolo 30 T.U.F.

Corte d'Appello di Ancona nullità ex articolo 30 T.U.F.

La Corte d’Appello di Ancona con la sentenza n. 208/2022 accoglie la domanda di nullità dei contratti di investimento formulata da oltre 60 risparmiatori, tutti patrocinati da FrameLex, disponendo la restituzione di un capitale pari a complessivi euro 1.450.000,00= oltre interessi legali.

La questione riguardava l’omessa indicazione della facoltà di recesso prevista dall’articolo 30 T.U.F. sulle schede di prenotazione dei certificati che erano stati collocati da un noto Istituto di Credito per il tramite della propria rete di consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede.

Fra i vari principi ribaditi dalla Corte anconetana ritroviamo quello, molto interessante, per il quale l’avvertenza sulla facoltà di recesso deve essere contenuta nella disposizione con cui il risparmiatore direttamente dispone dei propri capitali a prescindere dalla presenza nel “contratto quadro” della clausola sullo “jus poenitendi”, così si legge in motivazione: “Quindi la clausola di previsione della facoltà di recesso contenuta nel contratto quadro, ma non nel “modulo o formulario” e cioè nel documento che esprime ex art. 1321 c.c. l’accordo sull’operazione di investimento concretamente effettuata, non è idonea a soddisfare l’onere posto a carico dell’intermediario ai sensi dell’art. 30 comma 6 d.lgs 58/98 (tal senso vedi anche Cass. sent. n. 7776 del 3/4/2014), con conseguente nullità dei contratti dedotti in giudizio in applicazione del settimo comma della citata disposizione”.

Interessante anche il fatto che la condanna sia stata pronunciata nei riguardi del solo intermediario collocatore e non anche nei riguardi della società emittente gli strumenti finanziari: “Partendo dalla ricordata distinzione e netta separazione tra il contratto concluso tra l’emittente e il soggetto collocatore e quello tra quest’ultimo e gli investitori finali, accolta dalla giurisprudenza nomofilattica, occorre rilevare che il contratto concluso tra l’intermediario e gli investitori è riconducibile alla fattispecie disciplinata dall’art. 1731 c.c., e cioè ad un contratto di commissione al quale risultano applicabili le norme in materia di mandato e in particolare l’art. 1706 c.c.. Ora, sia che si aderisca alla tesi per cui il negozio gestorio, avente ad oggetto cose mobili, produca immediatamente l’acquisto del diritto in capo al mandante, sia che si aderisca alla tesi per cui vi sarebbe un doppio trasferimento (dal terzo al mandatario e da quest’ultimo al mandante), di cui il secondo automatico ex lege, eventualmente previa individuazione ex art. 1378 c.c. (cfr. Cass. sent. n. 9166 del 24/6/2002), in ogni caso il terzo venditore rimane del tutto estraneo al negozio concluso tra mandante e mandatario. Alla medesima fattispecie astratta del contratto di commissione è altresì riconducibile anche l’ipotesi di collocamento di prodotti finanziari previamente acquistati dall’intermediario. In tale ipotesi infatti viene in rilievo la previsione di cui all’art. 1735 c.c., la quale prevede che quando il contratto di commissione ha per oggetto beni aventi un prezzo di listino (ed è escluso pertanto un conflitto di interessi con il committente) il commissionario può farsi “contraente in proprio” cumulando in sé le due qualità di venditore (o acquirente) in proprio e di commissionario. Le considerazioni svolte portano quindi ad escludere che nella specie i contratti di investimento dedotti in giudizio siano stati stipulati direttamente tra l’emittente (o offerente) i titoli e gli investitori finali”.

Questa sentenza si aggiunge alle altre già ottenute in precedenza da FrameLex su questo argomento e contribuisce ad irrobustire un indirizzo giurisprudenziale che sta correttamente interpretando ed applicando l’articolo 30 del T.U.F. secondo la sua vera “ratio legis”: allargare il più possibile il perimetro dell’offerta fuori sede e non restringerlo al fine di escludere l’applicazione della sanzione di nullità di cui al comma 7 dell’articolo 30 T.U.F..

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Patto di stabilità: un vantaggio solo per l’intermediario?

Patto di stabilità: un vantaggio solo per l’intermediario?

L’avvocato Marco Da Villa ha parlato,  su Citywire Italia, dei rapporti di lavoro tra i consulenti finanziari e le mandanti.

I mesi di durata dei patti di stabilità/fedeltà più diffusi all’interno delle reti commerciali dei consulenti finanziari sono 24, 36 e 60.

Il patto di stabilità introduce una garanzia di durata minima del rapporto: il consulente finanziario, non l’intermediario, si obbliga a non recedere dal contratto per un certo periodo, di solito deciso unilateralmente dalla mandante, mentre quest’ultima non assume alcun obbligo, rimanendo, invece, libera di sciogliersi dal rapporto in qualsiasi momento.

La causa di tale accordo risiederebbe nel pagamento all’agente di un corrispettivo aggiuntivo e di miglior favore a fronte del suo impegno a non recedere dal contratto per il tempo convenuto: il patto di fedeltà fungerebbe da contraltare ai compensi erogati sulla raccolta ai consulenti reclutati ed inseriti nella propria rete di vendita.

 
 

A mio parere simili patti presentano, però, delle forti criticità che potrebbero, addirittura, portare ad una loro declaratoria di nullità. Non mi riferisco solo a problematiche di carattere giuridico, ma anche ad evidenti incoerenze sul piano commerciale.

A giustificazione di queste intese, con una notevole fantasia, le mandanti adducono che il pagamento dei bonus sulle masse da loro acquisite per il tramite del consulente richiede un tempo minimo di mantenimento delle stesse affinché, come si dice in gergo, si vada a break even. L’argomentazione è del tutto infondata:

a) l’intermediario nega una realtà commerciale che, al contrario, conosce benissimo e cioè che in questo settore, se non si pagano premi di ingaggio, non si recluterà mai nemmeno un solo consulente, se non il novizio senza portafoglio

b) Le masse introitate e la clientela acquisita per il tramite del promotore finanziario che ha firmato il patto di fedeltà generano commissioni tali che i premi erogati per l’acquisizione dei rapporti finiscono con l’essere ampiamente compensati ben prima del termine di stabilità imposto al consulente.

 

Si consideri, inoltre, che la clientela ed i contratti entrano nel patrimonio dall’intermediario e non del consulente. Vero che il promotore, quando cambia preponente, cerca di trasferire i clienti al nuovo intermediario, ma questa si chiama libertà di concorrenza e, soprattutto, anche la precedente mandante ben potrebbe cercare di fare altrettanto tenendosi i clienti specialmente se avesse prima offerto loro un servizio indiscutibile.

Giuridicamente, i patti di stabilità possono porsi in contrasto con le norme dettate dal codice civile in materia di preavviso, introducendo una asimmetria che non dovrebbe superare il giudizio di meritevolezza di cui all’articolo 1322 del codice.

In conclusione, simili pattuizioni, pur non vietate a priori, si muovono sulla sottile linea di confine tra lecito ed illecito e potrebbero sconfinare in quest’ultimo se correttamente valutate, tenendo conto delle caratteristiche peculiari del bizzarro mondo dell’intermediazione mobiliare.

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Cessione del ramo d’azienda cosa può fare il consulente finanziario? Cosa accade al suo contratto di agenzia?

Cessione del ramo d’azienda cosa può fare il consulente finanziario? Cosa accade al suo contratto di agenzia?

La cessione di azienda o di ramo d’azienda è un fenomeno conosciuto anche nel settore della distribuzione dei servizi finanziari, negli anni diverse sono state le acquisizioni tra SIM e Banche ed altre ancora ne verranno; pertanto, è sempre d’attualità il tema relativo alla sorte del contratto di agenzia che lega il consulente finanziario alla mandante cedente.

La norma di legge di riferimento è l’articolo 2558 Codice civile, in particolare il comma I° per il quale: “Se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale”; il primo interrogativo concerne, quindi, la natura del contratto di agenzia, il quale, se avesse “natura personale”, non si trasferirebbe autonomamente da una preponente ad un’altra. La giurisprudenza prevalente ritiene che il contratto di agenzia non abbia natura personale con la conseguenza che, in caso di cessione d’azienda, esso proseguirebbe automaticamente con il cessionario.

Con questa tesi, in tutta sincerità, non sono molto d’accordo in quanto può essere vero per alcune categorie di agenti di commercio ma non lo è necessariamente per i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede. Nel mondo dell’intermediazione mobiliare, i contratti di agenzia di una rete sono tutti uguali ma, attenzione, ogni singolo consulente ha discusso e concluso con l’intermediario la propria, appunto personale, lettera accessoria o integrativa del mandato e questa non è affatto scontato che sia identica a quella firmata dagli altri colleghi, anzi solitamente non lo è. Le cosiddette “side letter” contengono le pattuizioni specifiche in materia di obiettivi, remunerazione, incentivazione e organizzazione dell’attività, rappresentano la vera essenza del rapporto agenziale perché è con esse che le parti, al di là del contratto normativo uguale per tutta la rete, hanno voluto prevedere e disciplinare gli aspetti più importanti della loro collaborazione. Per questo motivo, mi sento di concordare con quella parte della Dottrina più attenta che conferisce al contratto di agenzia natura di contratto “intuitu personae” e ciò proprio per la presenza di lettere integrative ad hoc, scritte su misura per il singolo consulente. Partendo da quest’ultimo presupposto, con la consapevolezza che si tratta di un orientamento poco condiviso, una prima eccezione che si può sollevare, nel caso in cui la propria mandante abbia ceduto il contratto di agenzia ad un intermediario non gradito, è quella di sostenere l’inapplicabilità dell’automatismo di cui all’articolo 2558 stante la natura personale del contratto, sempre se il contenuto reale dei patti aggiuntivi firmati ed in vigore al momento della cessione consenta di farlo.

Altra possibilità è quella di esaminare il mandato e verificare se, tra le varie varie clausole, ve ne sia una che vieti la cessione a terzi del contratto (in una versione del contratto di una delle più importanti reti vi è proprio una clausola che recita: “questo contratto non è cedibile..”, purtroppo l’intermediario in questione è anche un colosso che difficilmente cederà il ramo d’azienda relativo ai consulenti…). Se si pescasse il jolly dato dall’esistenza della clausola di incedibilità si potrebbe, per sottarsi al trasferimento automatico, invocare la premessa contenuta al comma I° del citato articolo 2558 “Se non è pattuito diversamente, l’acquirente subentra …”.

Infine, la domanda sovrana: Posso recedere per giusta causa se la mia mandante cede l’azienda ad altro intermediario?

La risposta può essere positiva ma a condizioni ben precise.

Di nuovo bisogna guardare all’articolo 2558 c.c. ma al suo comma II°: “Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante”. Il concetto di giusta causa richiamato dalla predetta norma non è però, propriamente quello a cui il consulente finanziario è abituato a pensare e cioè quello riconducibile all’articolo 2119, vale a dire un grave motivo che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, il concetto è radicalmente diverso. La cessione d’azienda può integrare una giusta causa di recesso dell’agente dal contratto di agenzia se il cessionario non offre una sufficiente garanzia del regolare adempimento delle obbligazioni derivanti dalla prosecuzione del rapporto di durata e, più in generale, della regolare prosecuzione dell’attività dell’azienda cui è connessa l’attività dell’agente medesimo. In termini pratici, il consulente finanziario ceduto potrà invocare l’articolo 2558 quando il nuovo intermediario non dia affidabilità circa il pagamento delle provvigioni o degli altri emolumenti previsti nel contratto ceduto, oppure quando non sussistono le condizioni per mantenere lo stesso standard operativo a livello dei servizi finanziari, bancari e assicurativi che prima la cedente assicurava alla clientela. Francamente, sono situazioni che difficilmente possono verificarsi in questo settore. Comunque non tutto è perduto, rimane sempre la possibilità di agire sulla scorta dell’altra norma e cioè sulla scorta dell’articolo 2119 codice civile. Si impongono, tuttavia, delle precisazioni fondamentali. Infatti, le motivazioni generiche legate al cambiamento dell’offerta commerciale, dell’organizzazione aziendale, dell’assetto provigionale ed episodi simili non valgono sempre e comunque quale valida giusta causa di recesso: la giurisprudenza del lavoro formatasi con riferimento ad alcune epocali cessioni di rete di promotori finanziari ci ha proprio insegnato che tali argomentazioni non sono da sole risolutive. Sarà, infatti, necessario dare una rigorosa prova che questi eventi hanno inciso pesantemente sull’attività del consulente, provocandogli un danno difficilmente riparabile; ad esempio, una buona soluzione potrebbe essere quella di invocare un danno derivante dal fatto che una parte consistente dei clienti assistiti, appreso che i loro rapporti passeranno automaticamente ad altra società, ha manifestato la decisione di disinvestire o di cessare l’apporto di nuovo capitali. 

A parte quest’ultimo esempio, la casistica può essere molteplice e va valutata caso per caso; si possono manifestare anche situazioni paradossali, si pensi al consulente che aveva deciso di uscire, magari appellandosi a giusta causa e promuovendo specifica azione legale, da una certe rete e si ritrova a rientrarci, eventualmente anche distanza di poco tempo, per effetto della cessione automatica del mandato e pure con il processo di lavoro ancora pendente in tribunale: il consulente andrebbe a svolgere la propria attività professionale per conto di un intermediario verso il quale aveva perso il fondamentale vincolo fiduciario e con il quale sta ancora litigando in giudizio. La circostanza, in apparenza divertente ma nella realtà devastante, non è così rara come si potrebbe ipotizzare.

Chiudo con il ribadire che la cessione del ramo d’azienda di per sé sola non rappresenta necessariamente giusta causa di recesso.

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Corte di Cassazione e Unit Linked

Corte di Cassazione e Unit Linked

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23653/2021 depositata il 31 agosto 2021, in una vicenda seguita da FrameLex, affronta di nuovo il tema delle polizze unit linked a forte contenuto finanziario ribandendo un indirizzo che sembra oramai consolidarsi di provincia in provincia. La Corte d’Appello di Sassari aveva dichiarato la nullità di una polizza unit linked avendo accertato che il “prodotto venduto al Signor XXXXXX che non garantiva la restituzione dei premi versati, che potevano essere investiti anche in fondi non consentiti dalla normativa italiana, con possibilità di vendita allo scoperto, aveva, quindi, carattere meramente speculativo e rischioso per il soggetto investitore”. In buona sostanza la Corte d’Appello aveva qualificato la polizza come contratto di assicurazione sulla vita a causa mista di assicurazione e finanziaria, con prevalenza della funzione finanziaria perché il rischio in ordine al valore dei fondi acquistati dell’assicuratore era a totale carico dell’investitore, il quale, partecipando all’alea contrattuale avrebbe potuto vedersi esposto alla perdita o alla rilevante diminuzione del valore di riscatto. Il Giudice distrettuale  aveva anche statuito che la società collocatrice del prodotto, in solido con la società emittente, avesse violato la procedura di rafforzata informativa che non si risolve, ha continuato la Corte di Sassari, “nella mera consegna dei documenti descrittivi e della scheda sintetica ma comporta una puntuale verifica degli obiettivi del cliente e dell’adeguatezza dell’operazione rispetto al suo personale profilo attinente al rischio sopportabile alla luce delle direttive fissate per iscritto nel contratto normativo”.

Tanto la Compagnia di Assicurazione quanto la Banca collocatrice hanno proposto ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte ha affermato, rafforzando il proprio precedente orientamento

1 Che sono inammissibili i motivi di impugnazione quando “sollevano censure di merito sull’accertamento della Corte d’Appello in riferimento alla struttura della polizza assicurativa sottoscritta dal XXXXXX (se di gestione su base individuale del portafoglio di investimento ovvero strumento finanziario) e al suo funzionamento, che è incensurabile nel presente giudizio di legittimità se sorretto da congrua motivazione, come nella specie”.

2 Che “la valutazione discrezionale (anche se non arbitraria) delle clausole contrattuali, che non è censurabile in sede di legittimità, in particolare, laddove i giudici dell’appello intendo stabilire, al di là del nome iris, se il contratto sia da identificare come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell’esistenza dell’assicurato è assunto dall’assicuratore) oppure si concreti (come essenzialmente ritenuto nella specie) nell’investimento in strumenti finanziari (in cui il rischio di performance sia per intero addossato all’assicurato).”

Concludendo la “lotta” sulle polizze unit linked è ancora attuale ed in pieno svolgimento e FrameLex è pronta ad affrontarla.

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FrameLex STA firma una convenzione con Federpromm

FrameLex Sta firma una convenzione con Federpromm

FrameLex STA con l’Avvocato Marco Da Villa e Federpromm hanno sottoscritto una convenzione per la prestazione di assistenza legale, in sintonia con le attività riservate alle azioni del sindacato, in favore dei consulenti finanziari e degli altri operatori del settore bancario, finanziario ed assicurativo associati  Federpromm.
 
Federpromm ha precisato che “Con tale nuovo accordo Federpromm vuole esprimere la massima qualità di assistenza e competenza ai propri associati in un quadro di rapporti lavorativi complessi, quali i contratti di agenzia, sempre più penalizzanti agli operatori del mercato finanziario, creditizio ed assicurativo. La segreteria organizzativa è a disposizione per ogni ulteriore informativa presso la propria sede di Roma.
 

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Applicabilità sentenza Lexitor e Tribunale di Venezia

Applicabilità sentenza Lexitor e Tribunale di Venezia

Il Tribunale di Venezia si pronuncia con riferimento alla controversa questione legata all’interpretazione dell’articolo 125 sexies TUB alla luce della sentenza della Corte di Giustizia n. C383/18 cosiddetta sentenza “Lexitor”. Abbiamo seguito un cliente che aveva concluso con IBL Banca s.p.a. nel 2016 un contratto di mutuo contro cessione pro-solvendo di quote della pensione e che aveva chiesto, a seguito della risoluzione anticipata del contratto, la restituzione non solo dei costi contrattualmente previsti, ma anche dei costi ulteriori, relativi alla fase prodromica alla concessione del mutuo (c.d. costi up front), il tutto in forza dell’art. 125 sexies TUB. Ebbene, il Tribunale ha condannato la Banca a restituire, in proporzione alle rate non pagate a seguito dell’estinzione anticipata, al cliente: le spese istruttorie, la commissione di attivazione, la commissione di gestione, i costi di intermediazione. Uno dei passaggi dell’ordinanza veneziana più interessanti è questo:

“Poiché l’art. 125 sexies TUB costituisce trasposizione pressoché letterale dell’art. 16 par. 1 (l’unica variante lessicale consiste nel fatto che nella norma nazionale viene utilizzatala locuzione ‘pari a’ in luogo di ‘che comprende’ con riferimento alla riduzione da attuarsi in caso di estinzione anticipata), detta norma va interpretata nel senso che la restante durata del contratto non rappresenta il criterio di selezione dei costi da ridurre, ma l’indicazione della misura della riduzione di tutti i costi. Allo stesso tempo, non può affermarsi la efficacia non retroattiva della pronuncia della Corte di giustizia, e ciò in conseguenza del fatto che la Banca d’Italia, quale organo di vigilanza, ha sempre e costantemente interpretato l’art. 125 sexies TUB in senso difforme dalle conclusione cui è giunta la Corte europea”.

L’ordinanza contribuisce a rafforzare l’orientamento sempre più consolidato nei Tribunali di merito che depone per l’applicabilità diretta ed immediata della sentenza “Lexitor”.

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Tribunale di Monza e nullità delle polizze Unit Linked

Tribunale di Monza e nullità delle polizze Unit Linked

Anche il Tribunale di Monza si pronuncia sulla nullità delle polizze Unit Linked e lo fa con la sentenza n. 798/2020.

Abbiamo difeso un importante intermediario assicurativo in una causa promossa dal contraente contro la Compagnia di Assicurazione e contro i distributori al fine di ottenere la pronuncia di nullità del contratto assicurativo, nella specie una polizza di tipo “Unit Linked”. Il Tribunale di Monza, con sentenza n. 798/2020, ha accolto la domanda dell’attore dichiarando la nullità del contratto ma condannando solo la Compagnia avendo escluso la responsabilità in capo agli intermediari distributori.

Segnalo la sentenza perché, nell’ambito della altalenante giurisprudenza in materia di nullità delle polizze assicurative di tipo “Linked”, contiene alcuni passaggi che confermano i capisaldi dell’orientamento favorevole alla nullità di queste polizze.

Il Tribunale, dopo aver ribadito che la qualificazione del contratto come polizza Unit Linked “in astratto e di per sé, non sarebbe ostativa a riconoscere natura assicurativa al contratto”, ha determinato, correttamente, che nel caso di specie si trattasse “di una polizza pure unit linked, in cui non è previsto alcun genere di garanzia contro eventuali perdite… posto che la prestazione a carico dell’assicuratore in caso di decesso o di riscatto anticipato, sarebbe stata determinata unicamente in base al valore dell’investimento al momento dell’evento risolutivo; il rischio era dunque interamente a carico del cliente. Inoltre appare dirimente la circostanza che anche la copertura del rischio demografico era sostanzialmente irrilevante, posto che la prestazione contemplata in caso di decesso era costituita da una maggiorazione estremamente limitata dell’importo da corrispondersi in quell’evenienza (una percentuale dell’1 per cento nel caso in cui il decesso fosse avvenuto fino a 64 anni, via via decrescente sino al suo completo azzeramento). Si tratta dunque di un contratto in cui il rischio a carico dell’assicuratore è sostanzialmente nullo”.

Fatta questa premessa, il Tribunale ha concluso in questo modo: “Se anche si volesse pertanto ritenere che la variabilità in sé del capitale non escluda necessariamente il carattere assicurativo del contratto (v. ad es. Corte di Giustizia europea 31/5/2018 -causa C-542/16, peraltro di molto successiva ai fatti di causa ed emessa in un diverso quadro normativo) è vero anche però che nel caso di specie la concreta configurazione del contenuto del negozio evidenzia che i profili concernenti il rischio demografico costituivano elementi del tutto secondari e irrilevanti nel contesto del rapporto. Ne discende che il contratto per cui è causa deve essere qualificato come prodotto con natura prevalentemente finanziaria”.

A questo punto per il Giudice di Monza doveva trovare applicazione il Testo Unico della Finanza nel testo vigente all’epoca della sottoscrizione del contratto che “prevedeva (art. 23) l’obbligo di conclusione di contratto quadro avente il contenuto di cui all’art. 37 del Regolamento Consob n. 11522/1998” ma per il Tribunale: “nel caso di specie tale contratto non risulta concluso”, né può escludersi l’applicabilità di tale disciplina in base all’art. 100 T.U.F. co. 21 lett. f all’epoca vigente, in quanto questa disposizione escludeva dall’applicazione della disciplina richiamata esclusivamente i “prodotti assicurativi emessi da imprese di assicurazione”; facendo dunque riferimento non solo al tipo di operatore ma anche alla natura del prodotto. Neppure infine può convenirsi con l’assicuratore laddove egli afferma che tale contratto quadro sarebbe costituito dalla polizza, posto che né quest’ultima, né le relative note informative -neppure sottoscritte dalle parti- soddisfano in alcun modo i requisiti del contratto quadro”.

A mio parere la qualificazione del contratto è stata fatta in modo corretto e coerente con le caratteristiche oggettive della polizza in questione, condivido la declaratoria di nullità per carenza di causa ma attenzione che non è possibile applicare i principi dettati da questa decisione, e da altre sentenze simili, in modo indistinto a tutte le polizze di tipo “Linked”; questo perché, almeno secondo la mia opinione, detti principi sono utilizzabili solo rispetto alle polizze Unit Linked pure e cioè a quelle polizze che non hanno alcuna garanzia rispetto al capitale o che non prevedono alcuna indennità certa per i beneficiari al verificarsi del decesso dell’assicurato, sul mercato sono state collocate anche unit linked che presentano alcune garanzie in tal senso e rispetto alle quali i motivi di censura possono essere altri.

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